Una foto per un film, un film da una foto
Ti presento Sofia è un film che riguarda l’innamoramento, quella prima fase agli albori di un rapporto o che, contrariamente, può decretarne il suo declino. Le persone non si conoscono e spesso tendono a dare all’altro l’immagine di se stesso e dell’altro che vuole ricevere. Nessuno specchio inclinato, quindi. Nessuna crepa o spaccatura. Molte persone vivono solo di questo, rimanendo ad uno strato più superficiale e narcisistico dei rapporti. Questo non succede solo per le relazioni sentimentali, ma, ad esempio, anche in molte amicizie. Quando un’amica viene messa in discussione o non rispecchia più ciò che vuole l’altra, se il legame è narcisistico, si spezza. Se non siamo capaci di confrontarci con l’alterità, con la diversità, siamo destinati a vivere relazioni sulla sola spinta di un riconoscimento narcisistico.
Ma parliamo del film. Gabriele è padre di Sofia, una bambina di circa 7 anni ed è divorziato da altrettanti anni. Un giorno incontra nuovamente Mara, sua ex fidanzata dei tempi del liceo ed inizia una relazione. Mara fa la fotografa e odia i bambini. Così, Gabriele fa di tutto per nascondere Sofia a Mara. È convinto che restituendo a Mara l’immagine di un uomo senza figli possa conquistarla. La casa di Gabriele deve cambiare continuamente. Si trasforma da un luogo per bambini ad un luogo per adulti nel giro di mezz’ora. Gabriele utilizza lo stesso strumento di Mara, quello della fotografia, per ricordarsi come riposizionare disegni e giocattoli della figlia.
Se modificare un luogo a seconda delle circostanze può essere relativamente facile, con qualche accorgimento, più difficile è farlo con le persone e con la loro imprevedibilità, unicità, curiosità.
Infatti, la figlia Sofia si presenta a casa del padre in orario non concordato. La bambina stessa capisce la situazione ed afferma di essere la sorella, e non la figlia, di Gabriele. Rimarrà con lui alcuni giorni perché la madre è troppo impegnata con la nascita del fratellino. Mara impara a conoscerla meglio. Inizialmente, c’è un po’ di diffidenza da entrambe le parti. Sofia pensa di sapere che Mara odia i bambini e, dunque, la odia a sua volta. E Mara pensa di odiare i bambini e, per questa sua stessa idea, si sente odiata e odia Sofia. Cosa rompe questo “equilibrio”? Queste convinzioni, se vogliamo infondate, in quanto generaliste? L’incontro con la particolarità e con l’unicità dell’altro, la possibilità di parlare di idee e vissuti comuni.
Quando Mara capisce che Sofia è la figlia di Gabriele si arrabbia e rompe la relazione con lui, andando via. Afferma che non va via perché lui ha una figlia, ma perché le ha mentito. Mara continua a frequentare Sofia, va ai suoi saggi, le fa dei regali e diventa una sorta di confidente.
Questo può richiamare il logo del mio sito, l’Interrobang. “Odio i bambini!” diventa “Odio i bambini?”. La convinzione viene ribaltata, il soggetto non è più sicuro che il proprio Io corrisponda a quanto credeva di essere. La psicoanalisi procede così. Nel film, questo accade a livello di fatti Reali. Nella psicoanalisi, questo succede con la parola, con il proprio vero discorso, disancorato dai condizionamenti, che man mano prende forma.
Alla fine del film, Gabriele vuole darsi un’ultima chance per riconquistare Mara e si presenta ad una sua mostra fotografica per dirle che la ama. Per farlo, entra anche nel suo discorso fotografico, dicendole “Tu dici che una fotografia racconta una storia! Questa è la foto che la macchinetta mi ha scattato l’ultima volta che tu sei andata via!”. Le mostra una fotografia con la sua faccia rossa, spaventata e gli occhi che guardano verso l’uscita, verso dove lei è andata via per sempre. Il film potrebbe iniziare da lì, da quella fotografia. Molte foto sono fatte per raccontare qualcosa a qualcuno non dicendoglielo direttamente. Molte foto sono un po’ come gli sguardi che possono dire tutto, silenziosamente, parlando il linguaggio dell’inconscio. I fotografi sviluppano quello che Lacan chiama ‘oggetto sguardo’, i musicisti e i cantanti l’’oggetto voce’. Ognuno di noi è mosso da un oggetto. Chi è mosso dall’oggetto sguardo potrebbe non far caso all’oggetto voce e viceversa. Secondo la logica Lacaniana, ognuno di noi ha un solo oggetto elettivo che lo orienta o che permette di orientare gli altri. Per Hitler era la voce, ad esempio. Per i cartelloni pubblicitari è lo sguardo. Tuttavia, nella mia esperienza che predilige sempre l’unione e l’integrazione, la sincronia di tutti gli oggetti, che non a caso si ritrova nei film (e nella vita), è ciò che mi anima.
Dunque, anche le discipline artistiche (prevalentemente), sono un altro modo per lavorare su se stessi, scoprire e definire in modo sempre più specifico la propria identità. La psicoanalisi lo fa utilizzando le parole. Su quest’ultimo pensiero mi trovo perfettamente d’accordo con la psicoanalista Lacaniana Marisa Fiumanò, che ne parla in questa intervista. Un transfert, a tratti, positivo?
E, per voi, cari lettori, un altro assaggio del transfert?