Abitare il proprio desiderio
Il film Dove non ho mai abitato è la storia di una famiglia di noti architetti. La figlia Francesca si laurea anch’essa in architettura, lavora solo un anno e poi si sposa e trasferisce a Parigi, dove ha una bambina.
Il padre è contrario alla sua scelta, le rinfaccia la disoccupazione e le ripete più volte che sta buttando via la sua vita. Afferma che si è costruita da sola la gabbia in cui vive.
Quando il padre sta male, la forza a collaborare per un suo progetto ormai quasi concluso. Francesca accetta. Inizialmente, vuole solo fare finta di collaborare per far felice il padre. Tuttavia, inaspettatamente, si ritrova sempre più dentro a questa recita, appassionandosi realmente al lavoro.
Il padre nota questo cambiamento, affermando che le sono bastati un paio di giorni di lavoro per levarsi dal viso quella patina di indifferenza borghese. Infatti, la sua vita agiata Parigina aveva finito per annoiarla, lasciarla senza passioni ed obiettivi. Anche il collaboratore del padre le chiede perchè non abbia più lavorato, se ama questo lavoro. Francesca si fa la stessa domanda, che pone anche al marito. Sottolinea che non sia stato quest’ultimo ad obbligarla a lasciare il lavoro. Il marito risponde di amarla così com’è.
Francesca ricorda che si era sentita vista davvero e per la prima volta da sua madre, quando le aveva presentato un progetto di architettura. La madre amava così tanto il proprio lavoro da non riuscire a vedere altro nè connettersi emotivamente nemmeno con sua figlia, senza il discorso dell’architettura. La madre ha pensato la figlia come un’estensione narcisistica di se stessa, non permettendole di sviluppare un proprio discorso, diverso dal suo.
Questo può essere uno dei motivi principali del disorientamento di alcune persone, che non sanno che direzione dare alla propria vita. Inoltre, è anche uno dei principali motivi dei sintomi e delle crisi di identità. Qualcosa, nella propria vita, manca o è presente a causa del troppo amore per il discorso di uno o entrambi i genitori. Per il troppo amore, si può rimanere incapaci di conoscere se stessi. La domanda che Francesca sembra rivolgere ai genitori è: “è me o è me-architetto che vuoi?”. Non a caso, il marito è nella posizione di amarla a prescindere. Tuttavia, lo scacco si ritrova nella sua “patina di indifferenza” perchè non riesce a sentirsi davvero viva se non all’interno del desiderio dei genitori. Fare l’architetto sembra essere l’unico modo per avere una vita piena di emozioni e soddisfazioni. Guarda caso, viene stimata e si innamora, solo interpretando quel ruolo.
Il titolo del film, con l’aggiunta del punto di domanda, “Dove non ho mai abitato?” può far riferimento al luogo del proprio desiderio, che non ha mai potuto abitare, non riuscendosi a sottrarre dal luogo che i genitori hanno desiderato desiderasse.
Al contrario, possiamo notare con interesse che nella formazione professionale il processo sia o debba essere opposto: decido cosa mi piace, voglio io farmi oggetto del sapere del Maestro perchè questo mi è utile, sentirmi visto dal Maestro solo per quel ruolo mi dà soddisfazione in quanto spia del mio avvenuto apprendimento. Questo processo si chiama transfert ed avviene tra il padre di Francesca ed il suo collaboratore, che VOLEVA diventare architetto. Il transfert avviene anche in analisi, ma è temprato dal desiderio dello psicoanalista che non ha aspettative sul soggetto che gli si rivolge ed è realmente intenzionato a capire ciò che lo muove, anima, appunto, abita.
Altro dettaglio su cui vorrei soffermarmi è un rapido scambio di battute tra Francesca ed il collaboratore architetto. Ad un certo punto, con rabbia, il collaboratore dice a Francesca che il loro cliente non ha nemmeno capito che un determinato spazio della casa debba stare vuoto anzichè essere occupato da una lampada. Francesca risponde che è giusto perchè è casa sua ed è lui che deve decidere. Il collaboratore voleva applicare pedissequamente il discorso dell’architettura, senza tener conto della variabile individuale, molto cara a Francesca, per la sua storia. Francesca è più propensa ad accogliere la diversità e soggettività delle persone, mentre il collaboratore litiga con i clienti perchè non lo ascoltano, o meglio perchè non ascoltano il discorso dettato dall’architettura, che è poi il discorso in cui il collaboratore si identifica totalmente. Penso che in tutte le discipline, non solo in quelle psicologiche ed educative, si debba ascoltare e riconoscere la differenza dell’altro, magari indagandola, ma riconoscendola. Spesso, gli scontri sono soltanto apparentemente teorici, in realtà raccontano realtà fantasmatiche più profonde.
Susanna Premate